Su verità e menzogna. L'arbitrarietà del linguaggio.


I punti cardinali, le misure di lunghezza, di larghezza, di peso, di capacità, le note, l’alfabeto, le formule matematiche e quelle fisiche, i segnali stradali, le leggi umane e divine sono tutti esempi, e si potrebbe seguitare ad enumerarne tanti altri, di documentalità regolative che hanno nella propria natura e genesi la presunzione dell’oggettività.

L' oggetto trova la propria ragione di essere nello stare difronte a ciò che invece è soggetto, mantenendo, grazie alla distanza, una propria autonomia e indipendenza da tutto ciò che da quest’ultimo potrebbe scaturire. Stando a questa definizione l’oggetto, in quanto tale dunque, non sarebbe né emanazione né tantomeno proiezione di un soggetto che lo genera e lo modifica, sarebbe piuttosto ciò che è fuori di esso e che ha una propria necessità e autonomia. Tutt’al più si potrebbe asserire che l’oggetto sia osservato, studiato e compreso dal soggetto agente (questo l'indirizzo della filosofia almeno fino a Kant).

Adesso, considerando come oggetto l’insieme di tutte le cose che costituiscono il mondo dei fenomeni regolandolo si dovrebbe, per forza di cose, accettare l’idea secondo cui, in base ad una successione temporale, sarebbe dato in un determinato momento, preciso e rintracciabile, il cominciamento di quell’universo che successivamente il soggetto ha potuto scoprire e conoscere. Volendo aderire senza riserve alla tesi creazionistiche si potrebbe senza alcun dubbio accettare l’idea di un uomo venuto sulla Terra soltanto dopo che tutto il resto, e quindi l'universo oggettivo, era già stato creato e in tal modo il compito che gli spettava era quello di osservare, conoscere, utilizzare. Oggetto e difronte ad esso il soggetto.

Considerando però un noto saggio nietzschiano, Su verità e menzogna fuori del senso morale, la prospettiva in cui si guarda il rapporto soggetto/oggetto, cambia drasticamente. Infatti, qui l'oggetto, inteso come tutto ciò che viene conosciuto e individuato e nominato, non è “scoperto” bensì “creato” dall'intelletto, la cui principale attività è per l'appunto la finzione.

Accade nella società che l’uomo si senta parte di un tutto che lo include e che gli consente, mediante convenzioni universalmente condivise, la convivenza con altri esseri che altrimenti risulterebbe impossibile. Da qui la prima asserzione oggetto come documentalità regolativa, come segno indelebile, assimilato, sempre presente e mai troppo percepito, che indirizza e veicola i rapporti sociali altrimenti caotici.

Con la necessità di stipulare un patto sociale utile alla convivenza, un bellum omnium contra omnes, «viene inventata una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante nel mentre la legislazione del linguaggio offre altresì le prime leggi della verità; si istituisce dunque qui per la prima volta il contrasto tra verità e menzogna: il mentitore si serve delle designazioni valide, si serve delle parole, per far apparire reale ciò che non è reale».1

Ma cosa sono le parole se non raffigurazioni arbitrarie di stimoli nervosi ricevuti dall'esterno? Esse non sono altro che costruzioni simboliche decise da quegli stessi soggetti che poi le utilizzano e le accolgono come verità indiscutibili quasi a vedere nell'oggetto esterno la causa diretta di quel suono, di quella parola. Niente di più assurdo.

In effetti per accettare l'idea che le parole non corrispondono affatto agli oggetti basta pensare alle innumerevoli lingue utilizzate nelle diverse parti del mondo. Se da ogni cosa derivasse spontaneamente il suo nome non coesisterebbero così tanti idiomi che in molti casi non hanno niente in comune. Le parole poi, combinate tra loro e inserite in un contesto di relazioni delle cose in rapporto alle azioni dell'uomo, danno luogo a concetti, ovvero costruzioni mentali arbitrarie che assumono la valenza di riferimento e matrice originaria da cui deriverebbero come imitazione e tensione tutte le esperienze sensibili soggettive. Niezsche dimostra mediante il concetto di «foglia» la forzatura che viene messa in atto.

«Com'è certo che una foglia non è mai del tutto uguale a un'altra, così è certo che il concetto foglia è formato trascurando arbitrariamente le differenze individuali, dimenticando le distinzioni al fine di sviluppare pertanto la sua rappresentazione, come se nella natura ci fosse qualcosa, come la “foglia”, quasi una forma originaria, su cui siano tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte, ma da mani maldestre, tutte le foglie, per cui nessun esemplare sarebbe riuscito in modo corretto e attendibile quale copia fedele della forma originaria.»2

La foglia inserita in un qualunque contesto parlato o scritto rimanda sempre l'interlocutore alla visione e alla rappresentazione di un corpo presente in natura e collocato all'estremità di un ramo. La foglia, di qualunque genere essa sia, è pur sempre una parte della pianta. Qualunque essere umano difronte a tale riferimento linguistico ha ben presente il campo specifico all'interno del quale ci si muove. Eppure, l'esperienza personale insegna che lo stesso individuo non incontrerà mai nel corso della propria esistenza due volte la stessa foglia, e sarà impossibile pure che ciò avvenga per due individui. Ma allora a cosa è dovuta questa spontanea e reciproca comprensione intorno al concetto? L'intendimento tra gli individui, qualora si utilizzi un indicatore epistemologico non immediatamente individuabile con i sensi, è dovuto alla capacità che gli uomini che vivono in società hanno sviluppato di eludere l'esperienza individuale che altrimenti non lascerebbe possibilità di trasmissione di informazioni generiche e condivisibili. Ci si rifà al concetto in modo da creare un punto di congiunzione tra l'esperienza dell'individuo A e quella di tutti gli altri individui. Infatti, se si presuppone l'esistenza di un fattore X che abbia come caratteristica l'universalità e l'incorruttibilità ogni ragionamento intorno ad eventi che da esso derivano sarà compreso perché emanazione di qualcosa di già noto e originario. Questa referenzialità oggettiva, questo muoversi all'interno di una documentalità stabilità fa si che si percepisca nella natura un andamento regolare organizzato linguisticamente per concetti.

«Se avessimo, ognuno per sé, una percezione sensoriale diversificata, […] se uno di noi vedesse lo stesso stimolo come rosso, mentre un altro di noi lo vedesse blu ed un terzo addirittura lo sentisse come un suono, nessuno parlerebbe di una simile regolarità della natura, ma la concepirebbe soltanto come una formazione al massimo soggettiva. Di più, che cosa è per noi in generale una legge di natura; essa non ci è nota in sé, ma solo nel suo effetto, cioè nelle sue relazione con altre leggi di natura, che ci sono note di nuovo solo come relazioni. Tutte queste relazioni allora si rinviano sempre e solo di nuovo le une alle altre e ci sono da parte a parte incomprensibili nella loro essenza; solo ciò che v'immettiamo noi, il tempo, lo spazio, quindi i rapporti di successione e i numeri ci sono effettivamente noti.»3

Si può dunque affermare che i soggetti hanno organizzato la conoscenza della natura ordinandola secondo le categorie temporali e spaziali che pure non sono originarie della realtà esterna e dunque indipendenti dal soggetto, ma da esso linguisticamente fondate e applicate ai fatti. Infatti, il tempo e lo spazio sono misure normative di natura numerica prodotte interamente dalla mente umana al fine di organizzare con rigore matematico la realtà che altrimenti apparirebbe caotica e casuale. Mediante invece lo stabilirsi di concatenazioni causali, nella forma del prima e del dopo, è stato possibile tessere una ragnatela geometrica all'interno della quale incasellare la conoscenza del mondo esterno oggettivo.

Il linguaggio, quindi, che sia esso nella forma scritta o nella forma parlata, che sia alfabetico o numerico, funge da registrazione di conoscenze stabilite e acquisite una volta per tutte e intorno alle quali si articolano, nella costante condivisione di regole ben note e accettate, la conoscenza e la sua comunicabilità nello statuto della politica, della società e dei rapporti umani.

Il linguaggio diviene allora documento indelebile di traguardi raggiunti che segnano il punto in cui si è giunti e valgono da tutela nello scongiurare un ritorno alla barbarie.

La conoscenza dunque non è che una conquista e un'invenzione il cui principale strumento di conservazione è, appunto, il linguaggio e il cui fine è il dominio.

«In qualche angolo remoto dell'universo, riverso nello scintillio d' innumerevoli sistemi solari, c'era una volta un astro, sul quale degli animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu il minuto più presuntuoso e più bugiardo della “storia del mondo”: tuttavia fu soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura l'astro si rapprese, e gli animali intelligenti furono costretti a morire.»4

L'intelletto umano ha come principale facoltà la comprensione di ciò che lo circonda e nel far questo lascia che ad aiutarlo siano i sensi e le impressioni che il mondo esterno esercita su di essi. Naturalmente accade che ad ogni stimolo sensoriale corrisponda una reazione nervosa che va tradotta in un suono – parola – che diventerà pure la sua definizione, ecco allora che la verità viene decisa solamente rispetto alla genesi del linguaggio e dunque immaginando una ribellione della natura rispetto a questa verità imposta si verificherebbe, probabilmente, ciò che Nietzsche presagiva nell'incipit del suo saggio: gli uomini, e tutto quanto hanno costruito, ne sarebbero annichiliti.

Il rapporto che intercorre tra linguaggio e soggetto non è però lineare e univoco, tutt'altro, esso è caratterizzato da una reciproca influenza: nel mentre il soggetto parlante agisce nella convinzione di utilizzare il linguaggio in realtà viene da esso modificato. L'individuo agente è anche agito. Ha fondato, nel corso della propria esistenza, un campo di verità che, combinandosi con le altre verità, pur esse arbitrariamente fondate, non farà altro che plasmare e modellare le esistenze inconsapevoli.

Inconsapevoli perché a lungo andare, a causa di abitudini secolari hanno dimenticato di essere costantemente sotto il giogo di metafore derivanti da intuizioni originarie delle cose che poi finiscono per diventare le cose stesse. Si intrecciano quindi una serie di tele vincolanti ma non percepibili all'interno delle quali si è costretti a rimanere e delle quali la società impone il rispetto. Bisogna ubbidire a questi obblighi secondo delle convenzioni stabilite, bisogna mentire al modo del branco tenendo così stretti i vincoli che legano agli altri. Subire l'azione di tali convenzioni sociali, che abbiamo detto essere veicolate dal linguaggio, mantiene i soggetti agenti/agiti in una dimensione di inconsapevolezza, in quanto è proprio mentendo che essi dimenticano la realtà delle cose e se pure dovessero percepire l'inganno non è sempre detto che reagirebbero con sdegno.

Infatti, all'interno di una società organizzata si tende ad evitare tutto quanto possa generare disagio, panico, instabilità, precarietà, incertezza, e dunque si preferisce una menzogna innocua ad una verità spiacevole. Seppure l'impulso alla verità risieda per natura in ogni individuo questo però non deve intaccare ciò che nell'esistenza c'è di stabile e certo, perché si correrebbe il rischio di distruggere alle fondamenta quelle certezze su cui poggia il tutto. La reazione negativa, il sentimento di sdegno nasceranno laddove sia la menzogna che la verità avranno il potere di creare disagio e e danno, perché non si teme tanto l'essere ingannati quanto l'essere danneggiati dall'inganno. Per lo più si preferisce istintivamente una realtà in cui non si debba correre il rischio di essere danneggiati e conseguentemente si è indifferenti nei confronti di una verità pura priva di conseguenze positive di tipo utilitaristico e addirittura ostili se si tratta di una verità distruttiva rispetto a certezze acquisite.

La conoscenza è in fin dei conti secondo il filosofo tedesco un'invenzione, il linguaggio un veicolo di convenzioni sociali e «le verità sono illusioni di cui si è dimenticato che sono tali». Avvolti da segnali che indirizzano il cammino regolare dell'umanità ci si muove all'interno di una documentalità regolativa arbitraria e fittizia che pare essere quanto di più lontano esista dalla missione dell'uomo. Il vero.


1F. Nietzsche, Su verità e menzogna fuori del senso morale, p. 31, Filema edizioni, Napoli 2005

2Ivi, p. 39

3Ivi, pp. 55, 57.

4Ivi, p. 23

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