Quando l'ego del direttore fa ombra sull'artista è la fine dell'arte


Se penso al cambiamento generazionale visualizzo un diagramma cartesiano che illustra due grandezze inversamente proporzionali A e B rispettivamente identificabili come l'EGO del maestro/coreografo/direttore e il FUTURO dell'allievo/danzatore. Si potrebbe dire che, considerando la DANZA come fattore costante per le due grandezze indicate, al decrescere del primo elemento risulta la crescita del secondo. Quindi quanto più il maestro/coreografo/direttore che poi si può identificare anche con il produttore, il regista,  si fa da parte ed è in grado col passare del tempo di ridimensionare il proprio EGO tanto più al danzatore/allievo è data la possibilità di crescere. Al contrario quanto più l'EGO del primo fattore cresce tanto più le possibilità di successo del secondo diminuiscono, perlomeno nell'immediato.


Questo pensiero mi ha colta di sorpresa e il suo palesarsi così spontaneo e immediato mi ha fatto comprendere quale sia la natura del disagio che un professionista -soprattutto in età giovane- può vivere sulla sua pelle. E allora ecco che la realtà mi si presenta ancora una volta dicotomica dove ad essere doppia è la percezione che l'artista ha di sé e del suo occupare un posto nella società, una sorta di APPERCEZIONE leibniziana in cui è necessario e vitale avere coscienza e consapevolezza della causalità delle proprie percezioni inserite in un contesto ben definito.

Mi spiego meglio: sono un giovane danzatore, studio da anni con assiduità e devozione, semino con la speranza, e insieme la certezza, di raccogliere un giorno i frutti della mia fatica. Cresco tra le mani del mio maestro, a cui mi affido con slancio incontrollato e in cui confido come guida e faro per il mio futuro. Arriva il giorno della mia maturità artistica, sono pronto ad esibirmi/insegnare/creare e il mio maestro/coreografo  me lo consente dandomi l'opportunità di crescere artisticamente e professionalmente. Ecco, qui entra in gioco l'APPERCEZIONE di cui parlavo prima. Io percepisco delle sensazioni: gioia, soddisfazione, orgoglio, autostima. Sono soddisfatto perche? Perché il mio maestro, la mia guida mi consente di insegnare, creare, esibirmi e dunque lavorare. 

E si arriva all'eterogenesi dei fini di cui parlvava Machiavelli, ossia: apparentemente il fine che il danzatore si era prefisso lo ha raggiunto (il professionismo), ma la genesi dei fattori che lo hanno portato fino al traguardo qual è?  Bisogna uscire fuori dalla nebbia, dissipare le nubi e cominciare a percepire in maniera chiara e nitida la posizione del giovane artista in quello stesso mondo che ha fatto di tutto per costruire, senza che diventi il terreno fertile su cui chi lo ha preceduto - nel caso specifico il maestro/coreografo -  ha una rinnovata occasione di continuare ad esistere sfruttando una giovane linfa.

Cambio generazionale vuol dire appunto CAMBIAMENTO. L'importanza di chi ha più esperienza e saggezza non si mette in discussione tra queste riflessioni, il bagaglio immenso che si accumula tra i pensieri e i gesti di chi vive di danza da decenni non vacilla, semplicemente il passo tra l'essere fautori di un cambiamento e l'essere responsabili di una dittatura che sfrutti l'energia dell'altro in una spirale malata e perversa di dipendenza mista a eterna riconoscenza, nell'accezione negativa del termine, è molto breve ed è estremamente semplice, oltre che diabolico, urlare ad un proprio allievo/danzatore tutta la sua grandezza e bravura e poi sussurrargli all'orecchio in maniera forse impercettibile la richiesta di una eterna e dovuta riconoscenza per occasioni che altrimenti nessuno gli avrebbe dato.

TIMOTHY A. CLARY/AFP/Getty Images

Il cambio generazionale non avviene e non può avvenire finché i giovani resteranno sempre emanazioni di qualcuno, finché non avranno il coraggio di imporre la propria dignità e indipendenza come primo baluardo verso il professionismo e finché non pretenderanno di essere valorizzati economicamente e contrattualmente.

Se si aspetta troppo il cambio generazionale non avrà più motivo di esistere, perché il giovane che varca la soglia del professionismo rischia di invecchiare all'ombra di un maestro, un produttore un direttore ormai decrepito e si finirà per saltare una generazione senza neanche essersene resi conto.

Il cambio generazionale deve sì partire dai giovani, ma prima di tutto deve partire dalla crescita della generosità della vecchia guardia e dalla decrescita del suo ego.

Senza il passaggio reale del testimone la creatività si ripiega su se stessa, le nuove idee si annichiliscono e l'entusiasmo che il giovane professionista aveva al principio diviene lo stesso che prova un impiegato di banca che allo sportello conta banconote da 20 anni e nell'arte questo non è tollerabile. Senza il cambiamento e senza il giovane entusiasmo la danza diventa una mummia che neanche più i paleontologi vogliono studiare.

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